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L'UE, gli USA e l'esecito europeo

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view post Posted on 20/7/2008, 23:23
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Rifiuto Solido Urbano

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Questo articolo che ho scritto anni e anni fa è ancora valido: stessi problemi oggi come allora...

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Durante i lavori della Convenzione, in un’intervista al Financial Times, Blair ha avuto la presenza di spirito di parlare in termini abbastanza concreti della questione fondamentale sollevata daldiscusso vertice a 4 sulla difesa comune: caso molto raro per la media dei governanti europei che in pubblico sono quasi sempre portati all’eccessivo blaterare e quasi mai al discutere seriamente di fatti concreti.
In particolare, ha chiarito qual’è il motivo per cui il fronte cosiddetto “atlantista” non vede di buon occhio le pur insufficienti iniziative franco-tedesche volte alla creazione di un nucleo iniziale di unità militare europea: « (...) penso che sia assolutamente necessario chiarire la natura dei rapporti fra Europa e America. Alcuni vogliono costruire un mondo multipolare dove ci siano diversi centri di potere, ma io credo che la multipolarità si trasformerebbe molto presto in rivalità, riproponendo una dinamica simile a quella della guerra fredda, dove alla collaborazione internazionale si era sostituita la reciproca limitazione. L’Europa deve rafforzarsi, essere capace di parlare con una voce sola, ma non deve porsi come contrappeso al potere americano, perchè quella sarebbe una strada pericolosa e destabilizzante ».
Traducendo, la teoria di Blair è che essendo la forma d’amministrazione ideale del mondo una specie di santa “pax americana”, perchè in caso diverso si arriverebbe prima o poi a qualcosa di simile ad una guerra fredda fra vari blocchi mondiali, non bisogna portare le “colonie” europee all’indipendenza. Questo, oltre a far comprensibilmente e vistosamente infuriare “madrepatria” USA, porterebbe un determinante contributo al disastro multipolare e l’Europa (rimane sottointeso) potrebbe anche diventare una delle parti in causa contro l’America nella nuova "guerra fredda".
Di conseguenza l’Europa dovrebbe limitarsi ad istituire una specie di segretario generale della difesa, naturalmente senza poteri reali rilevanti, che dica la sua ad ogni evento eclatante, e al massimo un “corpo di reazione rapida” che vada a fare peacekeeping, peace-enforcing o qualche altra forma particolare di “peace” nelle zone che gli USA non considerano degne di troppa attenzione o che hanno appena finito di sistemare militarmente.
A rifletterci bene, anche se molti lo concepiscono soprattutto come ennesima trovata per mettere ulteriormente i bastoni nelle ruote all’Unione europea, questo ragionamento è comprensibile: agli USA non farebbe certo piacere l’eventualità di dover spartire con qualcun’altro la gestione del mondo. Figuriamoci con che entusiasmo vedono un’Europa militarmente e politicamente unificata: significherebbe la nascita di un nuovo paese realmente sovrano, che entrerebbe in un “club” oggi composto senz’altro da pochi elementi ma che comprende future medie o grandi potenze, alcune già in ascesa ed atre comunque potenziali, come la Cina, la Russia o un’India in via di sviluppo.
Ma è un ragionamento teorico che non si fonda sulla realtà attuale: trascurando anche il fatto che gli USA ci considerano già da tempo una specie di minaccia, in quanto nel campo economico anche solo per le sue dimensioni l’UE è una superpotenza, il mondo è già adesso multipolare di fatto, ed è ragionevole supporre che in futuro questa tendenza sarà sempre più accentuata e comunque inevitabile, nonostante la politica americana del “divide et impera”. L’Africa è fuori combattimento e per ora anche il Sud America nel suo complesso, ma in Asia rimangono molte unità sovrane o potenzialmente tali che in futuro potrebbero dare parecchio filo da torcere all’occidente: Non solo le già citate Cina e India, ma anche un Giappone che sta diventando politicamente intraprendente nonostante la sua crisi economica, il Pakistan con le sue nuove capacità nucleari e i paesi emergenti dell’ASEAN. Il mondo arabo è diviso e impotente, ma non si può trascurare l’Iran, alleato della Cina. Sono pochi, alcuni di dimensioni troppo piccole per impensierire seriamente, ma non si può ignorarne le potenzialità, specialmente nel caso della Cina.

A questo punto gli “atlantisti” potrebbero obiettare che anche considerando le tendenze ad un assetto multipolare del mondo sarebbe meglio non complicare ulteriormente la situazione con un occidente composto da due grandi unità indipendenti, che giustamente potrebbero sempre finire col litigare fra loro, facendo un bel favore al “nemico” ostacolandosi a vicenda. Sarebbe meglio rimanere a guardare e polemizzare come al solito, lasciando la direzione dell’orchestra agli USA...
Il guaio è che quella “rivalità” portata dal multipolarismo di cui parla Blair nella realtà dei fatti esiste già, e d’altronde molte delle inevitabili contrapposizioni presenti e future fra paesi sovrani non saranno annullate neanche a medio termine, perchè sarebbe assurdo pensare ad una rapida supremazia degli USA su giganti demografici, benchè malridotti o ancora in via di sviluppo, come Russia o Cina.
Bisogna anche tener presente che la sudditanza ha un costo, che nel nostro caso può essere elevato: nel campo economico il “multipolarismo” c’è già. Lo dimostrano ampiamente, ad esempio, i tentativi degli USA di mettere le mani su nostre industrie della difesa del calibro delle tedesche HDW (cantieri navali) e Krauss Maffei Wegman (mezzi corazzati e blindati) o della FIAT Avio e tutti gli altri atti di questa specie di guerra nucleare commerciale che si è scatenata da un po’ fra le “due sponde”, come la recente guerra doganale dell’acciaio. Guarda caso, quando tali scontri sono vinti dall’Europa lo si deve soprattutto alla sua unità e consistenza in campo economico. Per contro, europei che comprano industrie americane strategiche per la difesa sarebbe pura e semplice fantascienza, in quanto gli USA, al contrario di molti governanti di Stati europei (o dovremmo dire governatori di dipendenze?) hanno una chiara visione del concetto di sovranità. Che Chirac sia o no in buona fede quando parla di “contrappeso” al potere americano e non di “contrasto” del potere americano, il discorso è comunque valido: un paese che non è realmente sovrano nel XXI secolo ha difficoltà anche solo a difendere la propria base industriale e tecnologica e i propri affari puramente commerciali, insomma, non è in grado di garantire veramente il massimo sviluppo economico, il benessere dei suoi cittadini, il suo futuro, anche se la sua sicurezza esterna è garantita da altri.

Anche per questo l’unità europea è ormai necessaria: certi discorsi del tipo “noi contiamo di più in Europa grazie alla nostra grande fedeltà agli USA” o “possiamo spendere poco e niente per la nostra difesa perchè tanto ci pensano gli USA” non indicano solo il servilismo e la disonestà dei politici che li fanno, ma sono anche avvisaglie indirette di pericolo. Per noi sono ugualmente pericolosi gli estremi di concepire davvero l’Europa come antagonista mondiale degli Stati Uniti o al contrario come un’accozzaglia di staterelli sotto la sua tutela, come pericolosa per gli USA è la loro politica di considerare automaticamente l’Europa unita come una minaccia.
Negli anni ’40, all’inizio della guerra fredda, quando il nemico era ben definito e molto temuto, erano gli americani stessi a volere l’unità politica europea: nel 1948 il sottosegretario USA agli esteri, Will Claiton, praticamente “ricattò” i governi europei di allora cercando di vincolare la concessione degli aiuti del Piano Marshall alla creazione di una federazione che avrebbe dovuto fare da secondo contrappeso efficiente al blocco orientale, da cui poi derivò il fallito progetto della CED (Comunità Europea di Difesa). Questo è il vero principio di “alleanza”: due potenze vincolate da un’alleanza seria vanno molto più lontano di una potenza che dirige un gruppo di nullità riunite in una NATO ridotta ad uno strumento utile per far eseguire al meglio le istruzioni impartite dal capo.
Per quanto ci riguarda, la nostra disunità politica e le continue rivalità sotterranee, polemiche inutili, finzioni, pugnalate alla schiena e geniali mosse e contromosse da “belle époque” dei nostri mediocri governanti, responsabili tutti allo stesso modo di questa impasse, non fanno altro che metterci in pericolo. L’allargamento a profusione dell’UE, che da una parte della classe politica viene concepita come mezzo per cercare di ridurla ad una semplice grande area di libero scambio, rientra in questo campo: proposte assurde come l’ingresso di Turchia, Russia e Israele, fatte anche ad alti livelli, sono un chiaro segno del fatto che i governi europei hanno bisogno di altre sonore lezioni, oltre quelle già impartitegli in occasione di vari eventi mondiali che ne hanno messo in evidenza la totale nullità politica, prima ancora che militare. Il problema è che non possiamo permetterci di aspettare altri cinquant’anni per portare a compimento la costruzione dell’unità europea: il tempo in questa partita gioca a nostro sfavore e sta arrivando il momento di prendere decisioni serie.

Riferendosi all’unità politica in certi ambienti qualcuno parla di “utopie” o qualcosa di simile: i “realisti”, come amano definirsi, e le loro continue lamentele della “balance of power” ad oltranza come risoluzione di ogni male europeo e mondiale a volte hanno il coraggio di definire addirittura pericolosa l’ipotesi dell’unificazione politica europea... Considerati gli effetti delle loro teorie nell’ultimo secolo forse farebbero meglio a frequentare qualche corso d’aggiornamento di realpolitik, invece d’interpretare sempre molto alla lettera i loro manuali...
Anche perchè a pensarla diversamente da loro non sono in pochi. Ad esempio, la dottrina huntigtoniana dello “scontro delle civiltà” teorizza l’inclinazione naturale del mondo ad una condizione di rivalità perenne fra blocchi culturali più o meno omogenei, e non considera in via di principio l’unificazione europea come un rischio di decadenza della civiltà occidentale, ma piuttosto come un suo possibile elemento di rafforzamento.
La critica immancabile, in buona o cattiva fede, è che non sarà mai possibile raggruppare sotto un’unica entità Stati di diverse lingue e culture come quelli europei, con secoli di storia alle spalle. Allo stesso modo però non si può non ammettere che i popoli d’Europa non sono così diversi ed incompatibili come sembrerebbe a prima vista: i secoli hanno costruito differenze senz’altro ben marcate, ma hanno anche creato una “convivenza” storica inevitabile, per quanto spesso travagliata, di tutto il continente. Dopo l’inizio del processo d’integrazione il risultato è che oggi quando si arriva alle faccende serie, politiche, economiche, sociali e tecnologiche, la concezione generale del da farsi è la stessa o quasi. In molti campi esiste un modo “europeo” di concepire le cose, anche perchè in confronto al resto del mondo tutta l’Europa è sulla stessa barca. Anche da questo derivano le paure dell’attentato alle culture nazionali di cui amano favoleggiare i gruppi di estrema destra, pericolo inesistente nella situazione di “unità nella diversità” che caratterizzerebbe l’Europa federale e che nessuno si è mai sognato di mettere in discussione.
Federare anche solo i sei Stati che costituiscono il nucleo fondatore della Comunità europea non è affatto un’impresa utopistica, ai limiti dell’impossibile e comunque a lunghissimo termine: solo senz’altro difficile, in quanto stravolgerebbe equilibri interni ed esterni relativamente ben sedimentati per quanto decrepiti, ma certo non impossibile e men che meno dannoso. Qui l’ostacolo principale sta solo nell’immaginario.

Per quanto riguarda il “problema militare europeo”, in Italia chi ha presenti anche alla lontana i suoi termini non deve mai guardarlo attraverso i prismi deformati delle ideologie di partito o farsi ingannare dai molti ciarlatani da talk-show che sembrano essere esperti della questione: così come una parte dell’opinione pubblica ha “scoperto” improvvisamente l’Europa con l’arrivo dell’Euro (molto comica l’affermazione “l’Europa è nata da poco”, di cui certi sono davvero convinti) così la maggioranza schiacciante non sa assolutamente niente o quasi di quest’argomento, e di conseguenza non ha la possibilità di affrontare seriamente la questione. Per quanto possa sembrare strano anche i politici, non solo italiani, non conoscono quasi mai in modo sufficientemente approfondito le problematiche del settore difesa e spesso nemmeno si forzano di dedicargli l’attenzione necessaria.
I sintomi di questa situazione sono riconoscibili nei dibattiti pubblici, dove idiozie sfacciate come il costo eccessivo di un non meglio definito “esercito europeo”, da mettere in piedi con aumenti vertiginosi delle tasse e che addirittura sarebbe possibile solo dopo un massiccio ridimensionamento del Welfare in Europa, sono usate tranquillamente come argomentazioni sensate di un problema posto in termini corretti e, quel che è peggio, prese sul serio da un pubblico giustamente disorientato...

Per capirci qualcosa è necessario un accenno a varie questioni riguardanti l’Europa nel campo della difesa, dell’industria e degli armamenti.
Innanzitutto è importante specificare che in questo settore non è assolutamente possibile farsi né una cultura, anche solo di base, né un’opinione sensata sfruttando informazioni provenienti dalla TV o dai giornali: ciò sia per la vastità dell’argomento sia per l’ignoranza pressoché totale della questione da parte della maggioranza dei giornalisti, che con strafalcioni, luoghi comuni, invenzioni deliberate o cattive interpretazioni, hanno contribuito a seminare ulteriore confusione in un pubblico tradizionalmente già poco interessato a queste faccende.
In linea di massima, nell’immaginario collettivo, militare è sinonimo di americano: la tecnologia avanzata sarebbe totalmente in mano agli USA, e in minor misura alla Russia, mentre l’Europa secondo alcune versioni sarebbe arretratissima, secondo altre non avrebbe addirittura neanche una base industriale militare il che, come affermato da qualche sedicente intenditore di cose militari, sarebbe anche una delle motivazioni per cui non sarà mai possibile creare forze armate europee...
In realtà anche l’UE ha una base industriale vasta e più o meno solida, che però è afflitta dal solito vecchio problema: mentre gli USA sono una sola entità, che pensa e decide con una sola testa, con forze armate uniche e con un bilancio unico per portare avanti programmi razionalmente definiti e finanziati, l’UE è un insieme di staterelli con proprie forze simboliche o abbastanza consistenti, propri centri decisionali e propri bilanci autonomi. Al massimo, quando i programmi di sviluppo degli armamenti sono troppo costosi o complessi per essere portati avanti singolarmente, due o più Stati si associano con trattati, accordi di cooperazione o joint ventures per procedere in collaborazione se e quando tutti sono d’accordo.
Questa forma di cooperazione è sempre più diffusa, visti soprattutto i costi astronomici dei principali sistemi d’arma moderni, e con trattati stipulati di recente si cerca anche di coordinare al meglio i programmi di ricerca, definendo accordi, regole e procedure comuni. Si tenta anche la massima armonizzazione possibile dei requisiti operativi per la progettazione e l’eventuale esportazione dei prodotti, con un’agenzia ad hoc. Ma tutto questo non toglie la difficoltà di gestire programmi a volte fondamentali per dimensioni e tecnologie sviluppate dovendo scendere a continui compromessi, ripensamenti, revisioni e defezioni, data la mancanza di un vero organismo decisore centrale: non risolve il problema fondamentale dell’assurdità di non voler acquisire capacità operative enormemente superiori alle attuali, con qualche sforzo e costi totali non troppo lontani dagli odierni, pur avendone benissimo la possibilità.
Ovviamente dal punto di vista dei nazionalisti e di certi governi leccapiedi degli USA questa pur sgradevole situazione di sudditanza agli stessi per le operazioni complesse, specialmente quelle che richiedono un grosso spiegamento di uomini e mezzi lontano da casa, è un prezzo da pagare per mantenere quella “sovranità nazionale” di ogni Stato europeo che nella realtà dei fatti esiste solo nel loro immaginario, conservando allo stesso tempo il benvolere americano.

Per quanto riguarda l’industria della difesa europea, la principale è la Bae (British Aerospace), seguono l’EADS (European Aeronautic and Defence Society), formata da un accordo fra la tedesca DASA (Daimler-Crysler Aerospace), la francese Aerospatiale e la spagnola CASA (Construciones Aeronauticas S.A.), controllata della DASA. Poi si trovano ancora spaiate l’industria aeronautica francese Dassault Aviation e l’italiana Alenia Aerospazio, controllata da Finmeccanica, che avrebbe dovuto formare una nuova società con EADS, progetto poi sfumato per vari motivi. In questo quadro generale in continua evoluzione s’inseriscono le molte controllate di queste società e le industrie minori indipendenti attive in vari campi, oppure ulteriori società formate delle divisioni autonome delle case madri. Di quest’ultima categoria sono importanti la MBDA, società missilistica formata dalle divisioni missili delle maggiori industrie europee con capacità nel campo, e l’Astrium, che raccoglie le più importanti divisioni produttrici di satelliti (tranne quelle di Alenia ed Alcatel) e fa parte di EADS.
Questo breve schema è molto lontano dal descrivere esaurientemente una realtà vasta e complicata come questa, ma rende l’idea dello stato di fatto delle cose in questo campo.

Tornando al discorso della tecnologia, il problema principale è che in Europa si spende relativamente poco e indubbiamente male: nonostante in certi settori si riesca a volte a sorprendere gli USA con mezzi e tecnologie superiori alle loro (specialmente nell’elettronica e nei missili) la perdita generale di terreno è comunque evidente, in alcuni campi in modo drammatico (specialmente nelle tecnologie stealth aeronautiche, nei satelliti e nei sistemi informatici ed elettronici di coordinamento delle forze). Anche se si corre il più possibile ai ripari cercando di evitare inutili sdoppiamenti di programmi e unendo le forze, stiamo rischiando di perdere capacità tecnologiche sviluppate a caro prezzo e con molta fatica in decenni, tutto perchè si continua a fingere di non capire che non c’è alternativa reale all’unificazione: le agenzie comuni e gli accordi di cooperazione servono fino ad un certo punto, e non potranno mai ottimizzare veramente al meglio le spese R&S (ricerca e sviluppo), che rimangono comunque prerogativa dei singoli Stati, i quali possono anche decidere di tenere segrete le tecnologie ritenute di non meglio precisata “sicurezza nazionale”.
Una ventata d’ossigeno arriverà dall’imminente avviamento dell’ETAP, un grande programma congiunto di ricerca che cercherà per quanto possibile in questa situazione di colmare lo svantaggio europeo: sarà condotto da Francia, Regno Unito, Germania, Italia, Svezia e Spagna.
Altra nota dolente sono i fondi dedicati alla difesa. Nel Vecchio Continente gli unici due Stati che dedicano seriamente attenzione e risorse economiche alla difesa sono Francia e Regno Unito, col 2,5% all’incirca di spesa sul PIL, e di conseguenza sono gli unici due che hanno forze armate di qualche rilevanza a livello mondiale, anche perchè comprendono delle piccole ma non trascurabili forze nucleari, mantenute con fondi autonomi (nel caso della Francia anche con tecnologia interamente propria). Hanno eserciti formati totalmente da volontari, che si aggirano fra i 100.000 e i 120.000 uomini, forze aeree non proprio modernissime ma di una certa rilevanza mondiale e marine di dimensioni rispettabili. Germania e Italia invece si trovano in condizioni molto diverse: i governi di questi Stati di solito non dedicano eccessiva attenzione alle cose militari, per ragioni economiche ma anche politiche. Le forze armate tedesche hanno dimensioni rispettabili, ma la scarsità di risorse dedicate non le rendono molto rilevanti e capaci di agire fuori area. Anche nei programmi di sviluppo degli armamenti la Germania, che pure possiede capacità tecnologiche molto elevate, non è considerata un partner molto affidabile, per via dei continui problemi e ripensamenti quando arriva il momento di tirare fuori i soldi. L’Italia è conciata anche peggio: con un bilancio della difesa che con l’ultima riduzione è sceso all’1,07% del PIL e una classe dirigente che per decenni se n’è fregata quasi totalmente del settore difesa, ha un esercito che sulla carta è di circa 90-100.000 uomini ma può contare seriamente su non più di 15-20.000.
In quanto alla ricerca e alle acquisizioni di materiali la musica non cambia. Non ci sono mai abbastanza soldi per l’ammodernamento e tutto il resto, e i vari ministri della difesa che si susseguono devono cercare di arrabattarsi fra mille problemi e mille polemiche, sempre ammesso che ne abbiano veramente voglia.
L’Aeronautica Militare in certi settori è ben munita, in altri è in condizioni disastrose. Caso allarmante è la difesa aerea, che conta pochi missili obsoleti e praticamente nessun caccia operativamente valido, mancanza cui appena adesso si rimedia alla meglio affittando 34 caccia leggeri F16 dagli USA, nella lunga e dolorosa attesa del 2008, quando cominceranno ad entrare in servizio i 121 caccia europei Typhoon destinati all’Italia.
La Marina Militare (il cui nucleo da combattimento è composto da una portaerei leggera, 18 cacciabombardieri AV-8B Harrier II plus, un incrociatore in via di radiazione, 4 cacciatorpediniere, 16 fregate ed 8 sommergibili) è in brutte condizioni, sia per via delle sue ridotte dimensioni sia per l’obsolescenza di molte unità, anche se di recente è stato avviato un programma di nuove costruzioni che però non entreranno in servizio prima del 2008. Gli atri Stati dell’UE, escludendo parzialmente Spagna, Svezia e Grecia, hanno forze armate anche moderne ma numericamente insignificanti.

Come si comporta la maggioranza dei governanti europei di fronte a tutto questo? Per ora di considerare l’unificazione delle forze armate europee, anche solo quelle di alcuni Stati, semplicemente non se ne parla, perché farlo minerebbe alla base la “sovranità nazionale”. Fra i pretesti addotti di solito per scartare l’idea, il principale è appunto quello che un esercito europeo, inteso comunque come entità separata dai vari eserciti statali, da affiancare agli stessi, sarebbe troppo costoso (ed effettivamente sarebbe anche insensato). Insomma, per ora la parola d’ordine è che l’unità non è necessaria, e certi la considerano seriamente addirittura pericolosa, formalmente perché minaccerebbe l’esistenza della NATO, dietro le quinte per gelosia della fantomatica sovranità nazionale o per le varie questioni inerenti il multipolarismo.
Fin’ora si sono limitati a formare o a programmare piccole unità multistatali comprendenti truppe dell’UE (e in qualche caso anche non europee), come la celebre brigata franco-tedesca, poi confluita nell’Eurocorpo, oppure l’Euromarfor, una squadra navale componibile con unità francesi, italiane, spagnole e portoghesi. In futuro dovrebbe essere istituito il cosiddetto “corpo europeo di reazione rapida”, che pur avendo il consistente organico di 60.000 uomini può essere impiegato solo per missioni limitate, in ogni caso se e quando tutti i capi di governo sono d’accordo nell’utilizzarlo. Ovviamente tutti gli uomini e i mezzi, pur agendo momentaneamente sotto un comando unico, rimangono sotto il controllo dei rispettivi Stati, sempre depositari in ultima istanza delle decisioni riguardanti politica estera e difesa.

Ci si può rendere pienamente conto della demenzialità dell’organizzazione odierna della difesa europea pensando che, senza bisogno di macchinare l’istituzione di nuove tasse o astrusi progetti di corpi sovranazionali, la sola unificazione delle forze armate europee esistenti risolverebbe quasi completamente il problema di mantenere un dispositivo militare di dimensioni minime indispensabili alla difesa efficace del vasto territorio europeo e degli “interessi nazionali” europei, senza necessità di appoggi esterni. Facciamo un esempio: ipotizzando l’unione immediata di tutti gli eserciti dell’UE se ne otterrebbe uno di qualcosa come 980.000 uomini, numericamente il terzo al mondo dopo quello cinese e quello indiano. Anche contando solo i sei Stati del nucleo fondatore si avrebbe un’armata di 548.000 uomini, contro ad esempio i 478.000 degli USA o i 520.000 della Russia. Anche se la consistenza numerica di un esercito non conta quasi niente nella determinazione della sua potenza reale e l’istituzione di forze armate uniche comporterebbe ovviamente molti costi aggiuntivi per la loro organizzazione, i dati di questa semplificazione danno comunque un’idea di quello che l’Europa potrebbe essere se la questione della situazione politica e militare del continente fosse affrontata sul serio e se i politici non continuassero a far finta di niente, ficcando la testa sottoterra come struzzi ogni volta che eventi politici e militari di portata mondiale sconvolgono l’apparente “tranquillità” internazionale e li mettono di fronte a grosse responsabilità.

Un po’ meno facile è rendersi conto del livello di spreco di risorse a cui porta il sistema attuale. Quando si parla di spreco di risorse s’intende anche di risorse economiche e questo conduce a un argomento che tocca direttamente la gente comune: il portafoglio. L’esempio più lampante sono gli sdoppiamenti di programmi: due o più Stati che non riescono ad accordarsi per lo sviluppo comune di un sistema d’arma finiscono il più delle volte col procedere singolarmente o raccogliersi in gruppi, col bel risultato di spendere un sacco di soldi, a volte cifre astronomiche, per ritrovarsi praticamente con doppioni della stessa arma, varianti quanto basta a soddisfare i diversi requisiti iniziali che non si è riusciti ad armonizzare. Un esempio storico è il programma avviato alla fine degli anni ‘70 per un caccia europeo da superiorità aerea. Inizialmente il programma congiunto di sviluppo e produzione comprendeva Francia, Regno Unito, Germania, Italia e Spagna, ma dopo qualche anno la Francia si ritirò (a causa dell’assurda pretesa di assicurarsi una quota non inferiore al 50% del programma, nel tentativo di assegnare più lavoro possibile alle sue industrie alquanto sovradimensionate) e proseguì da sola. Il risultato è che oggi stanno per entrare in servizio due tipi di caccia, 620 Typhoon e circa 200 Rafale, che sono quasi la fotocopia l’uno dell’altro, con la stessa configurazione aerodinamica e all’incirca le stesse capacità ma sviluppati autonomamente, con tutti gli svantaggi (o i mezzi disastri) tecnologici, economici, operativi e politici che comporta ad entrambe le parti in causa. Piuttosto che stare con i piedi per terra e scendere a un compromesso, al contribuente francese sono state prelevate (ma si potrebbe benissimo dire “rapinate”) quasi per intero le decine di miliardi di Euro che servono al lunghissimo e complesso sviluppo di un caccia avanzato d’oggi, e che invece di massacrare il bilancio della difesa avrebbero potuto essere in parte assegnate al programma comune, con gli stessi risultati finali, e in parte dedicate ad altri importanti progetti francesi ed europei poi abbandonati per... mancanza di fondi!
Questa è solo una delle tante prove di come le conseguenze dell’incoscienza di singole parti finiscano inevitabilmente col ripercuotersi sull’Europa intera, i cui componenti principali sono strettamente interdipendenti fra loro; ma anche di come continua lo scempio idiota delle enormi potenzialità europee, e non solo in campo militare.
Alla fine, la classica ciliegina sulla torta è arrivata dalla Svezia. Mentre nella Comunità si decideva di procedere separatamente, la Svezia, con le sue tipiche fissazioni neutraliste, procedeva anch’essa autonomamente allo sviluppo di un caccia: la terza “fotocopia” dei primi due, il JAS 39 Gripen, con le uniche differenze rilevanti di essere realizzato con ampio ricorso a componenti estere (alla faccia della politica svedese di massima autarchia possibile) e di essere monomotore invece che bimotore...
Se non altro abbiamo un esempio concreto del “modo europeo di concepire le cose” di cui si parlava prima. Il fatto che questi tre aerei pur essendo stati sviluppati autonomamente siano la stessa cosa in tre salse diverse è la dimostrazione d”un sistema tipicamente europeo di concepire l’aerodinamica militare, l’esistenza di una vera e propria mentalità europea in questo campo altamente tecnologico.

La stessa stretta interdipendenza economica fra gli Stati europei ne implica indirettamente anche una militare, perchè la concezione generale della guerra è molto cambiata nel corso degli ultimi decenni. Prima dell’avvento dell’era informatica la guerra era semplice questione di scontro fra unità armate, con ampio ricorso allo spionaggio per ottenere notizie sulle strategie nemiche o diffondere finte informazioni per disorientarlo, e una serie di campagne propagandistiche limitate dalla tecnologia relativamente rudimentale dei media del passato, limitati alla radio, ai giornali e in seguito alla TV. Oggi invece la guerra è uno scontro totale che coinvolge tutti i campi e ai metodi tradizionali si sono affiancate altre forme di lotta, anche invisibili ma altrettanto devastanti, prima fra tutte la guerra informatica.
L’uso di virus, worms, bombe logiche, Cavalli di Troia e tecniche di vario genere come armi per combattere una guerra parallela a quella convenzionale è già una realtà ed è un settore a cui sarà dedicata sempre più attenzione, con l’aumentare della dipendenza delle società moderne dal computer. Gli obiettivi di questa guerra particolare, Information Warfare, non si limitano a semplici azioni di disturbo ma mirano idealmente a far piombare nel caos la nazione avversaria cercando di paralizzarne l’economia, i trasporti e le comunicazioni. Una delle sue forme, la EIW (Economic Information Warfare) è volta in modo specifico a sfruttare i punti deboli delle reti informatiche per condurre una “guerra economica” a tutti i livelli, con azioni quali il furto, l’alterazione o l’interruzione di dati indispensabili allo svolgersi delle transazioni commerciali e finanziarie della nazione.
E’ importante ricordare che azioni di EIW associate a guerre commerciali e industriali non dichiarate, condotte non solo da paesi ma anche da società multinazionali e grandi operatori finanziari, non sono vietate nè impensabili anche fra paesi ad economia avanzata e formalmente alleati, e soprattutto che la guerra informatica può essere condotta anche da organizzazioni terroristiche o altri gruppi, con l’eventuale aiuto di crackers. E’ chiaro che un attacco di questo tipo condotto contro uno o più Stati dell’UE coinvolgerebbe inevitabilmente anche gli altri: in questo campo, come tutti quelli in cui le frontiere non costituiscono nessun ostacolo reale, non ha semplicemente senso parlare di difesa che non sia una difesa di tutto il sistema europeo, perfettamente integrata e gestita da un solo vertice.

Durante la guerra contro la Serbia di Milosevich un ufficiale della RAF disse: “Gli americani fanno quello che vogliono, noi facciamo quello che possiamo”. Per colpa di quelli come Blair, Chirac, Aznar e Berlusconi noi in campo politico e militare abbiamo ben poco potere, quando ne potremmo avere uno enorme, da gestire per il nostro bene e volendo anche per il bene del mondo: quello di essere veramente padroni del nostro futuro. Questa è la vera “sovranità nazionale”.
 
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phemt_84
view post Posted on 21/7/2008, 11:51




Ricordo quando noi Italiani dell' Olivetti andavamo ad insegnare agli Americani che cos'era l' informatica.....dove sono finiti quei tempi? Dove sono andate quelle persone con i coglioni cubici? (con rispetto parlando).
Credo che i tempi non siano ancora maturi per creare un esercito Europeo, ancora troppi stati battibeccano appena possibile, ma se non facciamo qualcosa in futuro ci ritroveremo tra due fuochi.
Comunque nel campo aeronautico, ora gli armamneti cominciano a differenziarsi.
 
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1 replies since 20/7/2008, 23:23   67 views
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